DOMINAZIONE FRANCESE - San Francesco Grande - Padova

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IL RITORNO 1914-2014
La dominazione francese
Rapporti tra Chiesa e Regno d’Italia
 
Dalla Storia di Padova dalle sue origini sino al presente di Giuseppe Cappelletti edita nel 1875 leggiamo: «Entrati in Padova gli Austriaci in vigore del trattato di Campoformio, il dì 30 gennaio 1797, vi tennero provvisorio governo sino al cominciar dell’anno 1801. Nel qual anno, addì 5 aprile ritornò in potere degli Austriaci. Ma poscia la Pace di Presburgo del 26 dicembre 1805, la ritornò ai Francesi, i quali se n’erano impadroniti di già dal novembre precedente. E la tennero per otto anni; e quindi, dichiarata città del Regno d’Italia, continuò a essere tale sino al dicembre del 1813. Come città del Regno d’Italia fu capoluogo del dipartimento del Brenta, governata da un Prefetto, sulla forma di tutte le altre città di provincia italica: dipendente da un Vicerè».
Scrive poi il Cappelletti: «Padova da questo tempo non ha più storia propria. Serva anch’essa dei sottentrati dominatori fu condannata ad obbedire alle multiforme esigenze di questi. (...) Nel periodo delle suindicate fasi, dal 1797 al 1813, la sua vita, le sue vicende non furono che di obbedienza forzosa ai voleri or degli austriaci ed or dei francesi. Fu militare il governo che la reggeva, dal 1797 al 1805...».
Cappelletti ci dice poi che delle prime due fasi il solo avvenimento importante fu la venuta del pontefice Pio VII, che, eletto in Venezia nel conclave del 1800, venne a Padova il dì 25 maggio per visitare il santuario di Sant’Antonio. Pio VII entrò in una Padova addobbata a festa, da porta Portello del borgo degli Ognissanti e subito gli si fecero incontro molti vescovi e prelati e i deputati dei monaci Cassinesi di Santa Giustina, alla cui congregazione egli aveva appartenuto, Incontrò popolo e nobili, il Capitolo dei canonici, i deputati rappresentanti della città e i professori dell’Università. Visitò molti monasteri: il monastero delle Benedettine di Santa Sofia, delle Dimesse e delle Francescane della beata Elena. Passò poi al monastero delle Canonichesse regolari lateranensi, dette di Betlemme.
Il Cappelletti afferma che poche città avevano come Padova un numero così grande di chiese, di conventi, di monasteri, di confraternite. Vi si contavano 15 case religiose e 28 di monache; molte di esse con le loro chiese si distinguevano per la sontuosità dell’edificio e degli oggetti artistici che le adornavano. Trentadue erano le parrocchie.
Il governo italico dapprima le concentrò tutte, poi le soppresse e ne incamerò i beni. E le parrocchie, per decreto del 10 marzo 1808 furono ridotte a 12 soltanto, con sei succursali. Di queste, il Cappelletti trascrive il nome in un prospetto, datato 10 marzo 1808, che è incorporato nel relativo decreto del Regno d’Italia del 16 agosto 1808: «Il prefetto del Dipartimento della Brenta ordina la pubblicazione del prospetto approvato da S.A.R. il Principe Vice-Re delle Chiese da conservarsi e da chiudersi in questa città. Le disposizioni contenute nel seguente Prospetto saranno pubblicate il giorno 18 corrente e dovranno riportare l’esatto loro adempimento nel giorno 19 successivo. Il Prefetto del Brenta, G.M. Caccia - Il segretario generale A. Bontempi».
Anche la chiesa di Padova dunque, dopo la morte del suo vescovo Nicolò Antonio Giustiniani, avvenuta nel 1796, dovette subire le molteplici “privazioni” a cui dovettero sottoporsi quasi tutte le altre chiese d’Italia. La città rimase senza vescovo per ben undici anni. Nel 1807 fu nominato vescovo il padovano Francesco Scipione dei marchesi Dondi dall’Orologio, canonico della Cattedrale. Svolse il suo ministero pastorale in quei tempi difficilissimi di sciagure politiche ed ecclesiastiche fino al 1819, anno della sua morte.
Egli fu tra i vescovi invitati da Napoleone I al Concilio nazionale convocato a Parigi nel 1811. Ebbe prestigiosi incarichi e fu molto apprezzato per la sua eloquenza e dottrina. Ma i vescovi per ordine dell’imperatore furono ben presto “licenziati” ed ecco terminata anche la missione del vescovo di Padova che “sopravvisse”, privato di qualsiasi possibilità ingerenza nelle cose politiche, finché durò la dominazione francese del Regno d’Italia.
Riconoscendo che la causa principale della decadenza delle idee religiose derivava dal fatto che molte province erano senza vescovi che le reggessero, il vescovo Dondi dall’Orologio si recò assieme ad altri vescovi dal papa Pio VII perché accordasse l’istituzione canonica ai vescovi già nominati. Ma il papa si trovò impossibilitato, non per sua volontà, a soddisfare le loro richieste. Ricordiamo infatti che nonostante Pio VII fosse stato il papa dei Concordati con la Repubblica francese tra il 1801 e il 1803 e fosse stato colui che aveva incoronato Napoleone imperatore a Parigi nel 1804, fu da lui stesso costretto all’esilio a Savona, dall’estate del 1801 a quella del 1812, quando fu poi trasferito a Fontainbleau come residenza coatta, per tornare a Roma solo due anni dopo.
Dalla colossale opera di padre Antonio Sartori, Evoluzione del francescanesimo nelle Tre Venezie, nel capitolo riguardante “La soppressione napoleonica” apprendiamo che a Padova nella lista della Tabella B, tra i monasteri conservati in prima classe nei Dipartimenti ex-veneti figuravano: Santo Stefano (cui dovevano riunirsi San Marco e San Giorgio); Sant’Agata (cui dovevano riunirsi Sant’Anna e San Mattia); San Benedetto. Inoltre nella lista della Tabella C tra i monasteri conservati in seconda classe a Padova nei Dipartimenti ex-Veneti incontriamo: San Pietro (cui doveva riunirsi San Prosdocimo); Santa Sofia (cui doveva riunirsi San Matteo); Ognissanti (dove furono riunite le monache del Beato Pellegrino); Santa Maria della Misericordia (cui doveva riunirsi Santa Rosa); San Bernardino (cui dovevano riunirsi Santa Chiara e Sant’Elena); Santa Maria di Betlem (cui doveva riunirsi Santa Maria Mater Domini); e infine il monastero delle Eremite.
Tra i conventi da conservarsi e da riunire per quanto riguarda i Minori Osservanti figura il convento di San Francesco a Padova, San Francesco della Vigna a Venezia (cui dovevano riunirsi San Giobbe e Santo Spirito); Santa Maria dei Miracoli a Motta di Livenza (cui dovevano riunirsi San Sebastiano di Marostica e San Francesco di Udine); il convento di San Daniele a Lonigo (cui doveva riunirsi San Francesco di Schio); San Giuliano a Vicenza (cui doveva riunirsi Santa Maria d’Arzignano); il convento di Capodistria (cui dovevano riunirsi San Bernardino di Pirano e Sant’Anna di Parenzo).
Un decreto del vicerè stabilisce che al Santo di Padova si concentrino i Conventuali di Belluno, Conegliano, Udine, Venezia e che in San Carlo di Padova si riuniscano i Riformati di San Francesco di Cittadella; invece i Teatini sono trasferiti ai Tolentini di Venezia (settembre 1806). Sempre nel mese di settembre 1806 le monache di San Prosdocimo vengono traslate in San Pietro e il vicario capitolare Dondi informa che ha trasferito a San Pietro pure il corpo della beata Eustochio. I monaci di San Giorgio di Venezia si concentrano in Santa Giustina di Padova.
L’8 giugno 1805 Napoleone emana da Milano delle disposizioni per ridurre conventi e monasteri che l’8 luglio 1805 vengono applicate dal ministro per il culto, Giovanni Bovara. Il 14 marzo 1806, Napoleone di propria autorità estende agli stati veneti il Decreto 8 giugno 1805. In questo decreto, all’articolo 2, si legge: «Dietro le massime stabilite nel reale Decreto delli 8 Giugno 1805, il nostro Vicerè, Governatore degli Stati Veneti, inteso il Nostro Ministro per il Culto del Regno d’Italia, è autorizzato ad eseguire tutte quelle Soppressioni, Riunioni e Riforme che saranno necessarie per ottenere una perfetta uniformità di organizzazione fra il Clero Regolare e Secolare degli Stati Veneti e quello del Nostro Regno; Ridurre tutte le Amministrazioni dei luoghi pii in una sola, procuratie, scuole, commissarie, ospitali, conservatorj, monasteri, abbazie, priorati e ogni altra fondazione; far fluire tutto il denaro che si percepisce da queste rendite in una sola cassa...».
Queste disposizioni creano però numerose lamentele e molte sono le suppliche come troviamo riportate nella dettagliata Cronaca di padre Sartori: «1806, 10 maggio - Il vescovo Dondi raccomanda una supplica dei parrocchiani di San Michele i quali desiderano che sia loro rilasciata l’immagine dell’Addolorata, e un’altra della scuola del Torresino che desidera i 14 quadri della chiesa. Il Dondi chiede inoltre che parte degli arredi sacri avocati siano consegnati alle chiese povere e che siano consegnati a lui le pietre sacre degli altari, le reliquie e i corpi dei Santi.
20 maggio - Alla prima richiesta la direzione generale concede purché gli oggetti siano di poco valore. Alla seconda concede le pietre sacre, ma esclude la concessione di ori, argenti, pale, metalli preziosi.
1806, 16 giugno - Antonio Cittadella informa d’aver proceduto e come alla soppressione delle Fraglie di Padova.
1806, 29 luglio - Il guardiano del convento di S. Francesco chiede che gli siano dati in uso gli arredi dell’altare della Madonna, avocati al momento della soppressione della Scuola della Carità, essendo prossima la festa del Perdono e quella dell’Assunta.
1806, 30 luglio - Il Lion trasmette gli inventari dei quadri che esistevano nei monasteri di S. Francesco di Padova, di San Marco, di San Matteo e di Santa Maria dei Servi.
1806, 31 luglio - La direzione incarica Pietro Brandolese a consegnare gli arredi.
1809, 9 gennaio - La chiesa parrocchiale di San Lorenzo e Santo Stefano chiede ed ottiene la cantoria di legno della chiesa di Santo Stefano.
1809, 20 gennaio - I fabbriceri di Santo Stefano e Lorenzo chiedono il tabernacolo ed ornamenti di San Lorenzo per la loro nuova chiesa.
1809, 21 gennaio - Essendo il detto tabernacolo della soppressa chiesa di San Lorenzo, ora trasferita in Santo Stefano, la direzione glielo concede.
17 ottobre 1810 - Li fabbricieri della parrocchia di Santo Stefano indicano il giorno in cui desidererebbero che seguisse il trasporto o traslazione della parrocchiale, dalla chiesa di Santo Stefano che va a chiudersi, nella parrocchiale di San Francesco, eleggendo gli effetti sacri che bramano di conservare per uso della loro chiesa.
22 ottobre 1810 - Li fabbricieri della chiesa di San Francesco rendono conto alla direzione della pretesa della congregazione di carità sull’organo esistente in quella chiesa... Ma l’attuale organo sito in San Francesco è quello trasportato ivi dalla chiusa chiesa di Santo Stefano, mentre quello di San Francesco andò in mano del demanio».
Il 25 aprile 1810 Napoleone emanava il “Decreto portante la soppressione delle compagnie, congregazioni, comuni e ed associazioni ecclesiastiche”, che qui riportiamo: «Napoleone, per la grazia di Dio..., sentito il consiglio di stato, abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Eccettuati i vescovati, gli arcivescovati, i seminarj, i capitoli cattedrali, i capitoli delle collegiate più insigni, le parrocchie e le succursali delle parrocchie gli ospitalieri, le suore della carità e le altre case per l’educazione delle femmine che giudicheremo di conservare con decreti speciali, tutti gli altri stabilimenti, corporazioni, congregazioni, comunie ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura e denominazione sono soppressi.
2. Non sarà permesso ad alcun individuo di vestir l’abito di verun ordine religioso.
3. Tutti i religiosi forestieri d’ambo i sessi saranno rimandati ai paesi cui appartengono.
4. Tanto i religiosi non mendicanti quanto i mendicanti godranno di una pensione vitalizia secondo le norme stabilite dal paragrafo 13, art. II del nostro decreto 3 giugno 1805.
5. Le religiose non mendicanti e così pure le mendicanti avranno una pensione secondo le norme del paragrafo 22, art. V del detto decreto.
6. I religiosi mendicanti saranno tenuti di portarsi nel dipartimento dove sono nati. I sacerdoti dovranno presentarsi ai rispettivi vescovi, per servire alle chiese parrocchiali cui saranno destinati. Non potranno percepire la pensione se non producendo l’attestato del vescovo di residenza e di servigio nella parrocchia cui sono addetti.
7. I beni degli stabilimenti soppressi d’ogni specie sono ceduti al monte Napoleone che pagherà le pensioni. Ecc...».
Già nel settembre 1797, Napoleone aveva affermato, nel rapporto della Deputazione all’economia che «il governo deve garantire la vita, la proprietà, il lavoro a chi non ha proprietà, la sussistenza a chi non ha né proprietà, né è capace al lavoro. (...) La rivoluzione schiacciando l’oligarchia ha estirpato le radici della mendicità. (...) La parola mendicità dee essere cancellata dal vocabolario repubblicano - Lì, 21 Fructidor 1797 (17 settembre 1797) - Anno primo della Libertà Veneta».
A tali provvedimenti il decreto napoleonico non ammette trasgressioni e l’8 maggio 1810 vengono emanate le Istruzioni per l’esecuzione del Reale decreto 25 aprile 1810. Sarà compito dei prefetti coadiuvati dai funzionari speciali di polizia, dai direttori demaniali e dai delegati per il culto vegliare «perché tutto si faccia in buon ordine, e si ottenga obbedienza, prevenuta, impedita e repressa vigorosamente qualsiasi disobbedienza o perturbazione».
Al punto 3, “Discipline di polizia”, viene stabilito «un termine agli individui delle singole corporazioni soppresse, entro il quale dovranno deporre l’abito e qualunque siasi distintivo esteriore dell’ordine o istituto. Questo termine non oltrepasserà i giorni venti... da decorrere dal giorno della pubblicazione del Reale Decreto. Quanto alle Religiose a dimettere l’abito o il distintivo sarà concesso spazio maggiore fino a due mesi e non oltre».
Al punto 4 si precisa: «Entro questi termini dovranno gli individui d’ambo i sessi aver lasciato li locali di convivenza». Ed ancora si puntualizza che se le religiose lasciassero prima dei due mesi il convento «non potranno sortire giammai coll’abito o con distintivo qualunque dell’istituto, sebbene dovranno sortendo vestire alla foggia comune».
L’infausto decreto fu pubblicato in Padova il 10 maggio e venti giorni dopo, annota padre Luigi Lucadello, «fu eseguita la nostra secolarizzazione, così essendo stato stabilito per dar tempo al Ministero di far lo spoglio delle chiese e dei conventi».
Ed ecco come egli ricorda lo stato d’animo dei religiosi, la loro amarezza e il loro pianto nel dover abbandonare il convento e deporre l’abito talare: «Ecco giunto il fatal giorno antecedente alla forzata deposizione del serafico Abito e della nostra dolorosa separazione; giorno veramente di amarezza e di pianto: Dies amara valde. Questo giorno fu il 31 maggio 1810 in cui ricorreva la solennità dell’Ascensione di G. C. che, dopo averla solennizzata con straordinaria pompa, mattina e sera, alla quale concorse gran Popolo, che compiangeva la nostra disgrazia, e che per verità in tal circostanza li Padovani hanno dati contrassegni assai evidenti della stima ed amore che a noi portavano.
Terminata le funzione della sera siamo andati al Refettorio: ma talmente oppressi dal dolore, che il nostro cibo fu lagrime e pianto; ed infatti qual cuore poteva essere insensibile al distacco di quell’amorosa Madre, la quale con tanto affetto ci teneva uniti al suo seno? Congregata adunque tutta la Religiosa Comunità, il Superiore fece un patetico e commovente discorso, che però all’improvviso fu interrotto dai singulti, gemiti e pianto delli Religiosi; anzi alcuni svanirono, perché restarono privi di sensi, e si rese necessario il trasportarli all’infermeria dove per alcuni giorni soffrirono grave male.
Fu forza reprimere il nostro cordoglio, e per alcun poco calmarci ad oggetto di ricevere dal Superiore Locale l’ultima sua Benedizione, la quale ricevuta, scambievolmente abbracciandoci, mesti e sconsolati, andammo a ritirarci nelle nostre celle, dove più liberamente abbiamo potuto dar sfogo al nostro dolore, e senza poter prendere riposo attendevamo l’aurora di quel funesto giorno, che formar doveva l’epoca della violenta nostra secolarizzazione.
Giunto pertanto il memorando giorno, che fu il primo giugno 1810, deposto il serafico Abito, e vestito il Presbiteriale, abbandonammo (bensì colla persona, ma non col cuore) quel beato soggiorno, che ci rendeva contenti, e felici, e ci faceva godere un Paradiso in terra, e qual porto di sicurezza ci difendeva dalli flutti del burrascoso mondo, a cui in sì dolente circostanza fummo costretti esporci, solo confidati nel Divino Aiuto e nella valida protezione di M.V. e del Nostro Patriarca S. Francesco, che essi ci assisterebbero nella nostra dispersione. Quindi tutti ci abbandonammo per dirigerci dove ci aveva destinati il sovrano fatal Decreto».
Impressione spiacevole causarono allo stesso modo altri decreti napoleonici, validi nel Regno Italico, per i quali privilegi e consuetudini secolari venivano sconvolti: come la proibizione di seppellire i morti nell’area urbana (1806), l’abolizione delle “Fraglie artigianali” (1806), l’obbligo del matrimonio civile e dell’anagrafe comunale (1806), l’uso di un catechismo unico in tutto il Regno (marzo 1807), e infine, il dovere del giuramento di fedeltà alla Costituzione e al Governo da parte dei vescovi, dei parroci, dei beneficiati ecclesiastici (maggio 1806).
Altamente moderatrice nel fermento degli spiriti fu l’azione di mons. Dondi dall’Orologio, spesso accusato di essere giacobino.
Ma il regime napoleonico sarebbe stato accettato e apprezzato per i reali benefici che apportava se le guerre continue non avessero appesantito le imposizioni fiscali e causato leve militari obbligatorie. La popolazione di campagna fu duramente colpita dalle coscrizioni e costretta ad abbandonare le proprie terre e il proprio lavoro per andare a morire in terre lontane e per interesse altrui. Anche
 
in città l’economia risentiva duramente del blocco continentale antinglese con il conseguente contrabbando e il rincaro pauroso dei prezzi.
Al tempo della quinta coalizione europea contro Napoleone (1809) e quando per brevi giorni (24 aprile-2 maggio) gli austriaci rientrarono in Padova vi fu per questo una violenta esplosione di odio contro i francesi e i loro sostenitori.
La disastrosa guerra napoleonica contro la Russia, che portò migliaia di soldati veneti a morire fra i ghiacci dell’immensa pianura russa, gettò nel lutto e nello sgomento le nostre popolazioni, specie rurali, ravvivando l’avversione contro i francesi. Le ripetute sconfitte di Napoleone nel 1813 diedero chiaro il senso del suo vicino tramonto, aumentando il fenomeno della diserzione e dando origine a un pericoloso banditismo.
Da agosto a ottobre il fronte sull’Isonzo e sul Tagliamento fu valorosamente difeso dall’esercito italico comandato dal vicerè Eugenio. A fine ottobre gli austriaci avanzarono nel Cadore e nella Valsugana fino a Bassano e costrinsero l’esercito italico a ritirarsi sull’Adige, facendo di Mantova il caposaldo della difesa del Regno.
Ai primi di novembre tutto il presidio francese di Padova era partito e nella città, sguarnita, gli austriaci entrarono, al comando del generale Stahremberg, il 7 novembre 1813. Dovevano rimanervi per oltre cinquanta anni.
 
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